Il Fiore della Vita

il diario-romanzo
In copertina: Immagine del porto di Agropoli

PREFAZIONE

Il fiore della vita, il diario-romanzo nasce dall’idea avuta nel gennaio 2017 di voler condividere un’esperienza di vita vissuta, tra i ricordi di un passato che non può tornare e quel che invece si decide di essere oggi.

La nostalgia, spesso, rende avulsi dal nostro presente, illudendo il quotidiano nei ricordi di qualcosa che non è più. Intanto il tempo passa e la vita, quella vera, avanza anche senza di noi. Ricercando il fiore della vita si hanno molteplici esperienze, fatte di incontri materialmente tangibili e di felici intuizioni: una donna, un desiderio, un progetto, un pensiero benefico che sconfigge ogni nefasto legame psicologico con il passato. Questo fiore è l’esaltazione dei colori dell’anima, è un pensiero puro che supera ogni difficoltà, rendendoci in tal modo, dopo aver attraversato il fuoco, delle persone migliori. Le pagine che seguiranno nel diario, nascono dall’intento di voler condividere sprazzi di una storia vera, a volte tristi, duri, a volte coinvolgenti, leggeri, ma pur sempre reali ed intensi. I flashback appartengono ad un ragazzo, ormai uomo, chiamato Valentino, il quale ha avuto grandi privilegi e altrettanti dolori.
Tutto quel che si racconta di Valentino non è altro che la personale proiezione nel passato, i cui profili introspettivi e le considerazioni fatte desiderano aprire spunti di riflessione riguardo alcuni particolari aspetti della vita, nella speranza di poter aiutare il lettore ad osservare se stesso. Il romanzo, invece, si propone quale “cura” al diario, una storia verosimile, con persone e luoghi non sempre reali, ma pur sempre connessi alla verità del vissuto. Amori, trame, pericoli, sorprese, viaggi ed essenziali decisioni caratterizzano la seconda parte del libro che porterà i protagonisti a spostarsi dall’Italia al vicino Oriente, fino al Nord Europa. Il romanzo è un viaggio-invito a vivere pienamente la propria esistenza, senza perdere più tempo a voltarsi indietro, ad abbattersi per un insuccesso o qualsivoglia problema, desideroso di narrare che nulla è impossibile se lo si crede davvero, nella consapevolezza di non essere anime solitarie erranti su questa Terra, frutto del caso, ma parte di un progetto d’amore divino che non chiede altro di poter entrare, nella vita di ognuno, per risanare, liberare e risollevare lo sguardo di un’esistenza umana china, troppo spesso, su se stessa.
Iris è lo pseudonimo di una ragazza, ormai donna, realmente esistente, fonte certa di ispirazione e di confronto per me, apparsa a tratti come il fiore della vita tanto cercato, da declinarsi in qualsiasi situazione, capace di rendere una persona migliore.


Il fiore della vita può cambiare nel tempo e nello spazio, diverge di storia in storia, è il bene cercato o inaspettato che si decide di cogliere nella propria esistenza.

Quel che si intende comunicare e condividere, è l’altalena di emozioni che ogni essere umano vive sulla propria pelle e di come queste abbiano il potere di abbatterci ed elevarci allo stesso tempo, di quanto la vita appaia profondamente generosa e tremendamente ingiusta. E’ proprio così: non sempre tutto quel che accade sembra avere un senso. La fede, il mistero di Dio, il crimine celato, i falsi amici, gli amori impossibili, la ricchezza, la precarietà, le delusioni, la morte, il profondo senso di vuoto, il risveglio o per meglio dire, la rinascita ad una vita nuova nella costante ricerca del fiore.

La sensazione, a tratti, di aver vissuto tre vite, spinge a condividere l’esperienza del continuo cercare, anche inconsapevolmente, quando l’insoddisfazione del quotidiano sembra essere una componente imprescindibile dell’esistenza. Il fiore della vita, il diario-romanzo si propone come antidoto alla rassegnazione, una chiave di lettura per ognuno, mai quale insegnamento, piuttosto simile ad una voce che vuol consolare e abbracciare, indirizzare a suo modo, senza pretese, ma con sincera autenticità.

Aristotele Onassis, la cui storia non può dirsi essere stata monotona, priva di grandi successi e altrettanti dolori, sosteneva che è proprio nei momenti più bui che dobbiamo concentrarci per vedere la luce. Un pensiero a me molto caro e che adesso condivido con voi, con Il fiore della vita, il diario-romanzo.
Per me, scrivere e rivivere nella memoria, è stato il principio della rinascita, di una rinnovata bellezza della vita riscoperta alla luce della Fede, nella capacità di sapersi sorprendere e di saper stupire attraverso il bene inaspettato, un incontro insperato, un sogno avverato.

Capitolo I
7 GENNAIO
In questo gennaio a dir poco anomalo, sono qui, nella casa dei miei bisnonni, in un paesino del Cilento non lontano dal mare. Il tempo in questi luoghi baciati dalla natura sembra essersi fermato negli anni Sessanta ma, considerate le ambientazioni, probabilmente anche molto prima. Per me, che ricerco meditazione e silenzio, è certamente il posto migliore che potessi desiderare, intrappolato tra passato e presente, riesco a cogliere in questo luogo, avvolto dai ricordi e coccolato dal silenzio, momenti in cui il futuro mi appare meno inquietante e incerto. Sono letteralmente avvolto dalle pietre, pietre antiche. Un tempo, l’ambiente che da pochi mesi rappresenta la mia dimora non più saltuaria, doveva essere una stalla, i segni lasciati su alcune pareti e gli oggetti ritrovati ne danno testimonianza.

Ho la sensazione di non trovarmi in casa mia.

Forse il mio subconscio, le idee di vita, mi conducono lontano da questo luogo così meravigliosamente avulso dal mondo. A pochi centimetri da me, esattamente di fronte, ho posto una grezza roccia di sale dell’Himalaya, per alcuni una lampada. Tutta rosa, è divenuta una presenza discreta ma positiva in questo ampio locale. Mi è stato detto essere ionizzante ed utile per la cromoterapia, insomma un oggetto di tutto rispetto per chi se ne intende. Io l’ho semplicemente acquistata per il suo colore, mi piaceva, di un rosa dalle venature bianche che, quando accesa nella modalità di lampada, i suoi colori spaziano tra il rosso e l’arancio, quasi fosse una fiamma viva che non brucia, non riscalda, ma dona amichevolmente la sua presenza. Mai come in questo tempo, sento il bisogno di circondarmi di persone, oggetti, di pensieri che ispirino positività.
Appena ieri è stata l’Epifania, giorno in cui si ricorda e si celebra la manifestazione di Gesù agli uomini per il culto cristiano-cattolico, così atteso dai bambini per la venuta nottetempo della Befana.
Quale benevola paura da bimbo per questa vecchietta volante, tanto temuta quanto attesa, è meraviglioso essere piccoli. Per tradizione, ogni qual volta ho avuto la fortuna di trovarmi a casa dei miei genitori, quest’anno incluso, ho sempre ricevuto ai piedi del letto, in bagno o sulla scrivania, la mia amatissima calza.
Al tempo stesso, facendo rivivere in me lo scanzonato spirito goliardico e fanciullesco, ho ringraziato con i dovuti messaggi le mie migliori nonché più belle amiche per i doni ricevuti nella calza, dei quali loro erano assolutamente ignare. Un modo che, semplicemente, aiuta a non prendersi troppo sul serio, per far rivivere lo spirito semplice, forse un po’ immaturo, che sa apprezzare e godere le piccole cose, che rende lo scherzo un’occasione per guardare dentro se stessi e riscoprire il valore dell’attimo, quello che ci accompagnava quando eravamo piccoli e tutto era più facile, più puro.
Sorrido ancora all’immagine di queste ragazze, le mie care “befane”, belle, intelligenti, vere, più o meno affermate.
Ahi noi, in questi tempi di estrema precarietà in cui avere un’idea forte a tal punto da poterla trasformare in una professione, è gran cosa. Amabili ragazze, posseggono ben più di un’idea, di un’aspirazione, poiché hanno la forza e gli strumenti giusti da utilizzare, insomma, delle “befane” che tutti vorrebbero avere e delle quali posso vantare la loro amicizia e pazienza. Un altro sorriso procurato dal ricordo di lei, di loro e, per un istante, cerco di ritornare con la mente agli anni della fanciullezza, alla gioia fatta di piccolezze, di un giocattolo, di un dolce, di un’uscita.
Flashback: vedo un bambino in un luogo che non riesco a distinguere. Gioca beato in cortile, circondato da grandi piante, un mandarino cinese, alti serbatoi d’acciaio in lontananza e un palazzo che, considerata la libertà con cui il piccolo si muove, dovrebbe essere la sua casa. Una giovane donna lo chiama dal balcone:

«Valentino, vai piano!».

Lui corre con la bicicletta, una di quelle con le rotelle, è felice, ama ciò che sta facendo, glielo si legge negli occhi. È piccolo ma sicuro della sua guida, fa leva sulle rotelle per curvare più velocemente, presentava già le tipiche escoriazioni sulle gambe e le braccia che accompagnano ogni bambino vivace.

Valentino corre, sembra amare la velocità, forse un giorno sarà un pilota, chi può dirlo, lui non avverte il pericolo. Un’altra voce, stavolta di uomo, irrompe nel cortile. Un uomo, sui cinquant’anni, per look e fisionomia simile al più noto cantante e attore Adriano Celentano, camicia di seta, pantaloni di raso e scarpe a punta in pelle di struzzo, senza urlare, ma con tono deciso e amorevole, chiama il bimbo:

«Valentino, vieni qui, adesso facciamo una cosa».

Se prima aveva completamente ignorato il richiamo della donna, adesso il piccolo ferma la sua bici e la porta vicino al portone d’ingresso del palazzo, dove si trova l’uomo che, non curandosi troppo della maglietta del piccolo così pregna di sudore, prende un cacciavite, si china e dice:

«Adesso togliamo le rotelle, sei pronto?».

Il bambino ha uno sguardo perplesso ma adrenalinico. E’ evidente, le novità lo entusiasmano. Quell’uomo deve essere suo nonno. Il bimbo non esita un solo istante, sale sulla sua “nuova” bicicletta senza rotelle ed inizia a pedalare. Prende velocità, pedala sempre più forte, curva come se avesse ancora le rotelle e cade. Il nonno ride e gli si avvicina per aiutarlo a rialzarsi, controllando che non si sia fatto troppo male nella caduta.

«Devi trovare un nuovo equilibrio, prima ti appoggiavi sulle rotelle, adesso sei tu a governarla, non hai più nessun supporto, devi poter trovare il tuo equilibrio».

Il bimbo annuisce e senza parlare torna subito sulla bici. Stavolta pedala meno velocemente, curva, riesce a mantenere l’equilibrio, è euforico. Altra pedalata forte, ricurva e ricade. Valentino, imbronciatissimo, risale sulla sua bici e inizia a curvare soltanto. Cade, una, due, tre volte ancora. Sembra aver capito che il suo problema sono le curve, manca di equilibrio e, cadendo, non riesce più a correre come pochi minuti prima, quando aveva ancora le rotelle a sostenerlo, ad aiutarlo ad esprimere quella velocità che riempiva i suoi occhi di gioia

«Nonno, possiamo rimontare le rotelle, dai, non riesco, vado diritto e poi cado!».
«No, sei grande ormai! Mi hai mai visto andare in giro con le rotelle per caso? Non ti preoccupare, ce la farai, non avere fretta, non correre troppo e riuscirai. Quando avrai trovato l’equilibrio, potrai tornare a correre, sarai anche più veloce e ti divertirai di più, basta non avere fretta!».

Valentino non sembra troppo convinto, ma si fida e sale nuovamente in bici. Una, due, tre pedalate molto più calibrate, non più frenetiche come prima, curva, riesce a mantenere l’equilibrio, non corre, altre pedalate controllate, curva e ricurva nuovamente, lo fa altre due volte, poi si ferma, appoggiando il piedino sul bordo del muretto di cinta che divide i giardini del palazzo dal cortile d’asfalto.
«Bravo! Hai capito adesso?», dice il nonno con aria soddisfatta.
«Credo di sì!», e, mentre il piccolo si prepara per un nuovo giro, due uomini con tute da metalmeccanici a dir poco sporche di grasso, sopraggiungono dal piazzale retrostante il palazzo.
«Ciao Valentino! Don Carlo, noi abbiamo finito, torniamo in fabbrica?».
«Sì, certo, sono appena le quattro»

risponde loro Don Carlo, il nonno. Gli operai salgono su di un camioncino un po’ datato, si apre un grande cancello e, salutando con un colpo di clacson, si dirigono fuori dal cortile.


«Ci vediamo più tardi, sali da mamma, hai le gambe e le braccia graffiate, io devo andare adesso. Sei stato bravo! Le cadute di oggi le ricorderai, ti aiuteranno!».

Così si allontana Don Carlo, dopo aver appoggiato la sua mano, priva di due dita, sulla testa del piccolo per salutarlo e scomparire dietro il palazzo. Valentino lo guarda andar via, con la sua bicicletta tra le mani. Ha un’aria riflessiva, i capelli scompigliati, le braccia e le gambe graffiate e appena sanguinanti. E’ fermo e sembra essere in attesa di qualcosa ancora. Ed ecco una Porsche 928 color visone uscire dal retro del palazzo, passa piano davanti al bambino: è Don Carlo. Un colpo di clacson e via, fuori dal cancello in una progressiva accelerazione. Valentino rimane per qualche istante lì, fermo, come se avesse visto una mucca volare e, con la sua bici, pian piano, portandola a mano, attraversa il giardino di casa, entra nel portone insieme alla bicicletta e svanisce nel lungo corridoio che lo conduce alle scale.
Ritorno in me, come se mi fossi destato da un sogno durato pochi minuti. Una piacevole sensazione. Nella sua semplicità ed inesperienza, quel bambino mi ha ricordato quanto sia importante coltivare le proprie passioni, ma con intelligenza. Ha saputo recepire il consiglio del nonno, rinunciando in un primo momento al piacere di andar forte, alla velocità, al suo essere impulsivo per un bene maggiore: la padronanza di sé, l’autocontrollo, l’equilibrio. Forse, è proprio questo il segreto di una vita serena, l’equilibrio, un po’ come fanno i bambini quando imparano ad andare in bicicletta senza rotelle, non rinunciano al piacere del pedalare, ma riescono a trovare il giusto equilibrio per potersi muovere e, grazie a questo, pedalano attimi di felicità.
Personalmente, la ricerca della stabilità a qualsiasi costo, intesa come “bene supremo” a cui ambire, a discapito anche dei propri desideri, mi rende una persona decisamente più triste. Al tempo stesso, è futile immaginare un’esistenza alla ricerca della pietra filosofale, o semplicemente divenire simile a bandiera senz’asta sbattuta dal vento delle passioni. Affascinante sotto certi aspetti, ma priva di equilibrio come prospettiva. Credo che dentro ognuno di noi ci siano uno o più semi, i quali per poter dar frutto a suo tempo debbono poter essere coltivati, curati, attesi. I semi dei nostri talenti, se soltanto avessimo il coraggio di riconoscerli e assecondarli, coniugare cuore e mente, passione ed equilibrio, così come quando si tolgono le rotelle alle bici.

Alfredo Francesco Caiazzo