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Il Fiore della Vita

il diario-romanzo

In copertina: immagine di una sera, al mare.

CAPITOLO III

28 Febbraio

È sera e sono qui, seduto, su una panchina del lungomare di Salerno. Questa città negli ultimi anni è tornata a vivere, forse, come mai prima. Tutto è più curato, vissuto, pulito.

Spesso e purtroppo non senza motivo, le città del Sud Italia vengono criticate per mancanza di sviluppo, di iniziative, vittime di una politica miope che non consente di manifestare pienamente la loro grandezza.

Salerno rappresenta un’eccezione a questa triste statistica, la città è fiorente ed i cantieri aperti lasciano presagire un futuro non meno splendente di un presente già ricco di molto.

Seduto su questa panchina, stasera non desidero altro che rilassarmi e riempirmi gli occhi di bellezza, quella melanconica che solo le città di mare, d’inverno, sanno trasmettere. È un tempo in cui non tutto gira per il meglio, anche oggi non ho ricevuto buone notizie dal commercialista ma, così come diceva un amico frate francescano, quando sopraggiunge la nebbia e con essa rabbia e sconforto, fermati, non prendere decisioni, prega, prima o poi il grigiore si diraderà e inizierai a vedere tutto più chiaramente.

Non è semplice, soprattutto quando non si hanno presenti i benefici di tale pratica. Non ho mai preso una buona decisione quando la rabbia, la collera o il senso di confusione hanno dettato o accompagnato le mie azioni. Con il tempo, ho vissuto su me stesso questa pratica, rimanere in silenzio piuttosto che rispondere a tono, nel non ricercare alcuno prima che mi fossi calmato ed avessi ben chiaro come agire. Mai rimasto deluso da siffatto modus operandi, anche oggi ho deciso di comportarmi così, di far silenzio fuori e dentro di me, di non lasciar vincere il male, di restar fermo e non prendere decisioni nell’immediato.

Non è facile placarsi. Pensare all’amore di Colui che mi ha voluto così, lasciandomi pervadere dalla pace che ne deriva, è un passaggio importante prima di ogni altra azione.

In questo luogo, dopo aver rivolto il pensiero ad un amore che tutto comprende, riempio gli occhi di bellezza, ascoltando quel che mi è intorno, zittendo il bisbiglio dei miei pensieri peggiori. Respiro a pieni polmoni, la salsedine ha un profumo intenso, sembra essercene una concentrazione maggiore del solito, probabilmente è solo la mia sensibilità provata dagli avvenimenti o, forse, il desiderio di ricevere del bene.

Respiro intensamente, guardo in alto, si distingue qualche piccola stella nonostante la luce dei lampioni. Vorrei chiamarle per nome una per una, invitarle a venire da me, come se fossero fate, così da potermi donare la saggezza, l’immensa purezza e luce che gratuitamente irradiano da millenni, per ringraziarle di ogni sogno, per pregarle di trasmettermi il segreto dell’amore gratuito, quello che nulla chiede in cambio, proprio come loro nulla hanno mai chiesto per lo spettacolo offerto ogni notte, per il loro mistero, da sempre.

Abbasso leggermente lo sguardo verso destra, scorgo la sagoma dell’antico costone che scende a perpendicolo nel mare. Oltre di esso, uno dei luoghi a me più cari, uno scorcio di paradiso, l’inizio della costiera amalfitana. Guardo e penso che non sarebbe una cattiva idea alzarsi per raggiungere Amalfi o Positano. No, non lo sarebbe affatto, se non mi ritrovassi, adesso, in un grande piazzale, circondato da grandi serbatoi d’acciaio e, dinanzi a me, una palazzina incorniciata da pini marittimi, ed il sole a perpendicolo sulla mia fronte.

Un altro flashback. L’area intorno a me è davvero grande, c’è fermento di uomini, operai che si muovono tra il piazzale, grande pressappoco come quattro campi di calcio e un capannone industriale ancor più grande, circondato da altri fabbricati perimetrali, semi aperti, all’interno dei quali si sente battere l’acciaio.

Due vie, una alla destra e l’altra alla sinistra del grande prefabbricato, delimitano il confine tra il capannone centrale e quelli perimetrali. Operai governano camion carichi di serbatoi ed autoclavi in un’area retrostante che, dalla mia posizione e considerate le distanze, non riesco a vedere. Mi volto indietro e vedo due rampe di scale, in granito nero, che conducono all’ingresso della grande palazzina bianca, con finestre e vetri fumé. Se non sentissi in lontananza il rumore dei martelli, delle tagliatrici e di altre macchine dedite alla lavorazione metallurgica, se non avessi visto tutti quegli operai indaffarati, potrei immaginare di trovarmi all’ingresso di un locale alla moda.

Percorro la prima e la seconda rampa di scale fino al portone d’ingresso, di legno scuro e filettature in rame, il percorso mi conduce a sinistra e mi ritrovo in una sala d’aspetto circondata da vetri fumé. Sono tentato di sedermi su quei divani in pelle nera, ma il brusio che viene da un’altra porta mi incuriosisce e decido di proseguire. Oltrepasso un’altra porta in vetro ed eccomi in un lungo corridoio di cui non vedo le estremità. La struttura, ricorda la forma della luna crescente ed io mi trovo pressappoco al centro.

Dinanzi a me grandi vetrate si affacciano su un giardino curato, posso distinguere siepi e piante ornamentali dai fiori rossi e lilla. All’interno, invece, vicino le finestre, lunghe fioriere piantumate. Il brusio continua e decido di proseguire a sinistra del corridoio. Noto una prima stanza con alcuni addetti che scrivono e rispondono ai telefoni squillanti, tre postazioni in tutto. Proseguo avanti ed ecco, dalla porta di fronte, spuntare a passo veloce Valentino.

E’ cresciuto, ormai è un ometto che mangia la sua coppetta gelato. Spedito, in direzione opposta alla mia, punta l’altra estremità del corridoio. Decido di non seguirlo subito, ma di sbirciare nella porta aperta dalla quale è uscito. Mi affaccio e vedo una scrivania a forma di ferro di cavallo circondata da mobili in legno, la signora Ginevra seduta a capo di essa discute con due uomini, anche loro seduti su due sedie in pelle nera.

Le vetrate tutte intorno inondano di luce l’ufficio risaltando i modi gentili di Ginevra. Sarei volentieri rimasto lì a guardare la signora impartire lezioni di buone maniere a quei due, il cui tono di voce copre di gran lunga quello della nonna di Valentino, ma non intendo perdere di vista il ragazzo, passato accanto a me pochi attimi prima. Esco dalla stanza velocemente e proseguo in direzione opposta, sempre lungo il corridoio. Supero vari uffici che adesso si trovano sulla mia destra, devo raggiungere il ragazzo, è veloce anche quando cammina quel piccoletto. Vado avanti, ancora un’altra stanza sulla mia destra con tre postazioni all’interno, finalmente lo raggiungo, alla fine del lungo corridoio, di fronte una porta, sempre in vetro opaco, Valentino bussa ed io dietro di lui.

«Avanti!», riconosco la voce di Don Carlo dall’interno.

Valentino apre la porta e siamo dentro. Più che un ufficio direi un loft,

con arredamenti moderni e qualche pezzo d’antiquariato. Don Carlo è dietro la grande scrivania a forma di “C”, concepita in legno chiaro, assolutamente atipica, sarà stata fatta fare appositamente da lui. Davanti all’industriale quattro uomini, ben vestiti, uno di loro mi sembra di conoscerlo, sì, deve essere quel tale mellifluo della villa.

Don Carlo non ha un bell’aspetto, appare provato, eppure non gli manca il sorriso. Valentino si avvicina a lui ma il nonno, con una vigorosa carezza scompigliatrice di capelli, lo invita a tornare più tardi.

 «Ok» risponde serenamente Valentino e, giratosi solo un istante verso quei signori, si congeda con un

 «arrivederci» mentre cammina verso la porta d’uscita, senza curarsi troppo degli uomini che, ossequiosi, salutano il ragazzo. Ho una strana sensazione e decido di rimanere nella stanza, di non seguire Valentino.

Tizi che appaiono ai miei occhi come quattro iene intorno ad un leone ferito, mi posiziono lateralmente, vicino ad una delle molte finestre in quello studio, così da poter cogliere le espressioni di tutti.

«Don Carlo, la trovo in gran forma! Rispetto all’ultima volta in clinica è migliorato tanto, è tornato tra noi, menomale!» pronuncia il più centrale dei quattro.

 «Diciamo di sì, il peggio sembra esser passato, quattro byepass al cuore non sono uno scherzo, qualche complicazione dopo l’intervento, ma adesso decisamente meglio, grazie!», risponde Don Carlo.

«Don Carlo noi siamo qui oggi, d’accordo all’unisono, per aiutarvi a risollevare l’azienda. Siete stato oltre un anno lontano purtroppo, è il momento di riprendere le redini del comando e nessuno meglio di voi può farlo!», aggiunge uno dei quattro, il più vicino a me, dando del “voi”.

«Carlo, la situazione non è rosea, il mercato c’è, l’azienda ha i numeri per potersi risollevare, ma esistono anche delle falle dovute alla tua assenza, all’assenteismo dagli operai, questa azienda dovrebbe produrre 1000 serbatoi al giorno, ne escono appena 50! Carlo, sono tuo amico da sempre nonché tuo avvocato, insieme a me e i qui presenti, il commercialista, il direttore di Banca e quest’altro nostro collaboratore, noi cinque insieme possiamo dare uno scossone ad una realtà ormai pericolosamente dormiente. Carlo dobbiamo reagire!», conclude il personaggio mellifluo, con voce pacata e amichevole.

«Sì, l’azienda ha grandi potenzialità, dobbiamo risollevarci! Mi hanno proposto una società di Milano, uno di quei grandi studi che si occupano di consulenza aziendale, alcuni amici si son trovati molto bene con loro, l’attività è stata risanata, ma questi signori dicono di voler ristrutturare l’azienda, dovrebbero entrare in ogni settore, dalla produzione all’amministrazione, alla gestione contabile, questi vogliono venire a “casa mia” e dettare legge, quando io ho soltanto bisogno di un po’ di tempo per far ripartire tutto! Questa azienda è una mia creatura, so io come farla rivivere!», dice Don Carlo ai presenti.

«Carlo hai ragione! I milanesi, per andare a Roma, preferiscono fare il giro per Palermo, la fanno troppo lunga! In fondo, tu, di cosa hai bisogno? Soltanto di un po’di liquidità in più Carlo, noi pensiamo che…».

 «Un miliardo, un miliardo potrebbe bastare, non di più!», soggiunge Don Carlo.

«Esatto! Proprio quello che avevamo pensato anche noi, che sintonia! Cosa vuoi che sia un miliardo per te, con le proprietà che hai, il direttore te lo concederebbe stamane! Basta sistemare solo un po’ gli operai, lavoreranno, non ti preoccupare, qualcuno lo licenziamo e in pochi mesi sei di nuovo sulla cresta dell’onda!», aggiunge il mellifluo.

 «Bene, allora direttore, come dobbiamo procedere?». Don Carlo rivolgendosi all’ultimo dei quattro che, fin ora, non aveva ancora parlato, il direttore di banca.

 «Don Carlo, abbiamo soltanto bisogno di un paio di fideiussioni ecco, sulle vostre proprietà. Da alcune visure fatte, oltre l’azienda, il palazzo di Battipaglia e la villa di Agropoli dovrebbero andar bene!», afferma il direttore.

«Cosa? Ma soltanto l’azienda vale oltre venti volte l’importo richiesto, perché dovrei garantire con altre proprietà?», replica Don Carlo.

«Sa Don Carlo, anche se si tratta di una piccola somma, considerata l’urgenza, avremmo bisogno di beni più facilmente esigibili per erogarle subito l’importo. Mi rendo conto che il valore dei beni da concedere in fideiussione molto superiore, ma è la procedura bancaria che me lo impone, non posso fare diversamente, altrimenti dovrebbe attendere molto più tempo per ottenere l’importo», risponde il direttore.

«Mah, onestamente mi sembra eccessivo», risponde a sua volta Don Carlo.

«Carlo, è una stupida fideiussione, tra pochi mesi avrai già restituito l’importo, ti sarai cambiato barca e saremo tutti da te in Brasile a festeggiare la tua rinascita! Ne hai passate troppe in questi ultimi anni, ma vedi? Il Padre Eterno ti ha voluto ancora tra noi, sei stato a braccetto con la morte e sei ritornato! Adesso ci siamo noi, qui, per aiutarti… e per la parcella!», soggiunge il mellifluo, suscitando con quell’ultima frase il riso tra i presenti.

«Hai ragione amico mio, ho solo bisogno di un po’ di tempo, gli operai faranno ciò che devono e tra pochi mesi sarà tutto di nuovo in ordine! Per quanto riguarda il venirmi a trovare, sai bene che la mia casa è sempre stata aperta agli amici!», risponde Don Carlo guardando il mellifluo che, abbassando sguardo e capo annuisce, ma senza aggiungere una sola parola. Apre un cassetto della scrivania, prende alcune carte che, presumibilmente, saranno parte della documentazione degli immobili richiesti e la porge al direttore aggiungendo:

«Direttore, mi dica allora, dove devo firmare?». Trascorrono alcuni minuti necessari all’espletamento delle pratiche, dopodiché, ossequiosi e capeggiati dal sempre più servizievole mellifluo, salutano Don Carlo e insieme, come quattro sicari vestiti di nero, escono dalla porta d’ingresso.

Rimango lì, ad osservare Don Carlo. Con sguardo duro e riflessivo si siede, apre un altro cassetto, prende una pillola, la ingerisce senz’acqua, rimanendo seduto, con gli occhi fissi, come se si stesse guardando allo specchio, nel silenzio assoluto della stanza e della sua coscienza.

«Ce la farò!», esclama.

 Il silenzio di quella stanza e Don Carlo seduto lì davanti, immobile, infondono in me un senso di inquietudine. Mi volto verso una delle finestre dello studio. Il verde intorno è davvero ben curato e nel prato inglese osservo saltellare tutta sola una gazza ladra, uccello non difficile da trovare nella Piana del Sele. Non vola, saltella e poi si ferma, ad un tratto, fissando la finestra dalla quale sto guardando, proprio nella mia direzione.

Speriamo non sia un cattivo presagio” penso, considerato quel che era appena accaduto. Gli occhi di quell’uccello, fissi su di me, mi turbano, così mi volto nuovamente verso Don Carlo.

 Lo trovo mutato d’aspetto, d’abbigliamento, in volto, c’è un altro uomo nello studio, ma quando è entrato? È un’altra immagine di vita, sembra esser trascorso qualche anno, inizio quasi ad abituarmi ormai a questi viaggi nel tempo. L’industriale appare perso nel vuoto, c’è un uomo di fronte a lui che parla, parla, ma lui è evidentemente altrove con la mente, in quel luogo è presente soltanto il suo corpo, peraltro già abbastanza provato.

«Don Carlo, il Tribunale ha decretato il fallimento dell’azienda, non doveva accadere, ma adesso non possiamo fare più nulla, purtroppo è stato mal consigliato, cosa le devo dire, l’hanno portata per mano sull’orlo del burrone, dopodiché le hanno dato una bella spinta! Lei si è fidato di amici che l’hanno tradita, avevano altri interessi, non mi faccia aggiungere altro, sono colleghi e non mi piace dover parlare male della categoria e di certe persone», dice l’uomo seduto di fronte, palesemente imbarazzato e in difficoltà.

«Avvocato, si rende conto? Tre giorni prima dell’udienza, quei miserabili hanno cambiato il giudice, io non dovevo fallire, è stato tutto combinato, maledetto il giorno in cui gli ho dato ascolto! Mi son fidato di un amico, farabutto, lestofante, lui e le persone con cui si è accordato per distruggermi, il direttore di banca che ha portato qui nel mio ufficio, lo stesso che ha poi chiesto il mio fallimento! Lo conoscevo da ragazzo, non credevo che la sua invidia arrivasse a tanto! Povero me sciocco, a fidarmi di lui, di loro! Avvocato cosa possiamo fare?», l’industriale con voce roca, piena di dolore e senso di colpa.

 «Nulla…», sussurra, quasi sospirando, l’avvocato.

 «Oggi è come se mi fosse morto un figlio, forse di più», dice Don Carlo, come se davvero si trovasse di fianco alla salma del suo primogenito.

Con quell’immagine davanti agli occhi, mi ritrovo nuovamente nel mio presente, a Salerno, di sera, sulla panchina. Come se sentissi anche mio quel dramma, quasi a volerne condividerne il peso, mi incammino verso l’auto, penso che per oggi può bastare così, nessuna costiera amalfitana, si torna a casa.

Meno male che avevo bisogno di input positivi stasera, perché ho dovuto assistere a tutto questo?

Perché condividere questo dolore? Quale il senso?

Voglio essere felice e basta, non ricerco storie e tantomeno pensieri negativi. Lascio scorrere qualche minuto nel silenzio dei pensieri, senza lasciare alla mente alcun riferimento. Poi, ritorno inevitabilmente a quell’uomo, Don Carlo, l’avrò visto circa quattro volte, in fasi differenti della sua vita, ammirandone il carattere brillante, la ricchezza frutto del lavoro, la generosità, l’amore per la famiglia e per il nipote Valentino, il suo essere decisionista. Un uomo che andrebbe premiato e, chissà quanti premi avrà ricevuto in vita per tutto quel che di buono è riuscito a costruire. Una malattia al cuore, la stessa che lo ha portato a stare lontano dai suoi interessi, fin quasi a morire per poi ritornare, affrontare i problemi sorti in sua assenza, essere ingannato dai suoi più prossimi e morire.

Anche il giudice cambiato ad hoc per l’occasione.

Dov’è la giustizia?

Una situazione angosciante, non riesco a vederci davvero nulla di buono, di edificante, nemmeno per me, semplice spettatore di questa tragedia. Mentre continuo a pensare quale infausto destino abbia colpito quell’uomo e la sua famiglia, un particolare mi torna in mente. Don Caro ha detto che c’era una società di Milano con la quale aveva parlato, di cui si erano serviti alcuni suoi amici.

Adesso loro navigavano in acque tranquille. Avrebbe dovuto lasciare che tale società milanese potesse prendere il comando dell’azienda, per poterla così traghettare fuori da quella situazione stagnante in cui si trovava?

 Se avesse scelto quei professionisti anziché fidarsi degli amici sciacalli, se avesse deciso per la strada apparentemente più tortuosa, difficile da adottare considerata la sua forma mentis, cosa sarebbe accaduto?

Chi può dirlo con certezza. Probabilmente non avrebbe subito alcuna conseguenza fideiussoria e quei quattro signori non sarebbero riusciti a mettere in atto la loro strategia.

Adesso sì, intravedo un senso.

Purtroppo a Don Carlo è mancato il discernimento, quella preziosissima capacità di capire dove risieda il bene e il male, la forza di intraprendere il percorso più giusto, anche se apparentemente più complesso.

È impensabile immaginare una vita priva di difficoltà, di problemi, va al di là dell’utopia poiché, il bene e il male, la gioia e i dolori, il sereno e la pioggia sono parte essenziale dell’esistenza. Molto è determinato dalle nostre scelte, nessuno ha puntato la pistola alla tempia di Don Carlo il giorno della firma.

Chi è consapevole di scegliere intenzionalmente il proprio male quando tutto va per il meglio?

Quella decisione, seppur a fin di bene, basata su erronee convinzioni, riguardo la fiducia riposta in coloro che lo ossequiavano, riposta in falsi amici, poteva essere evitata in quanto derivante dal mero desiderio di superare un ostacolo, non di un fulmine a ciel sereno. Il bene e il male sono due forze che agiscono in modo contrapposto, dentro e fuori di noi, se non si comprende questo, ogni difficoltà sarà enormemente più dura, le scelte più confuse ed il tutto a discapito del percorso individuale di crescita.

Santo Discernimento!”, è lui che traccia o meno la rotta del nostro viaggio, che riconosce gli iceberg, prima ancora che i nostri sensi riescano a percepirne il freddo! Come ottenerlo? Immaginare una vita senza errori non è affare per  umani. A noi piace sbagliare per imparare, così da tornare a farci del male, per poi sperare di aver capito cosa?

Che la vita alcune volte ti presenta dei conti troppo cari?

No, ma possiamo imparare a rileggere gli eventi e imparare da essi, se avessi sviluppato questo senso critico anch’io, in tempo utile per riconoscere prima i “venditori di fumo”, quanta sofferenza e delusioni avrei evitato. È impossibile non commettere errori, ma esistono decisioni che determinano stravolgimenti dell’esistenza propria e di chi verrà, come quel che è accaduto a Don Carlo.

 Cosa faranno adesso i suoi figli, nipoti, dipendenti, clienti, centinaia di persone e famiglie coinvolte.

 Per la presunzione di non aver bisogno di nessuno se non di se stesso e di qualche “spicciolo”, per aver ascoltato il canto delle sirene dei suoi amici adulatori. Naturalmente Don Carlo non avrebbe mai voluto tutto ciò, non lo avrebbe neanche mai immaginato, ed è questo il vero problema, non aver previsto l’inaspettato, aver avuto fretta di raccogliere qualcosa subito, convinto di riuscire da solo, così come da solo probabilmente aveva creato quel suo piccolo regno.

L’esperienza degli amici che, lungimiranti, si erano affidati a professionisti del settore per dirimere problemi ben più gravi della sua azienda, hanno avuto la forza e l’umiltà di riconoscere i propri limiti ed agire di conseguenza, rivolgendosi a persone lontane, le cui azioni non potevano essere dettate dall’invidia, poiché risollevare aziende in difficoltà costituiva il loro pane quotidiano.

Certo, con il senno di poi è semplice trarre deduzioni, chi sono io per giudicare un uomo del genere?

Una cosa ripeto a me stesso, cercando di imprimerla a fuoco nel mio animo troppo spesso ribelle. L’approccio umile alle cose della vita aiuta ad ascoltare e vedere dove poggerò i miei piedi, così da evitare di inciampare in trappole mortali.

Alfredo Francesco Caiazzo

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