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IL PESSIMISMO COSMICO DI ERNEST HEMINGWAY

In Copertina : foto di Hernest Hemingway

Poche cose di ciò che studiai al liceo mi sono rimaste nella memoria ed una di esse è il “pessimismo cosmico” di Giacomo Leopardi.
Non sono in grado di definire con precisione perchè mi colpì più di tutto il resto, tanto da rimanere impresso per sempre nella mia testa; forse l’insistenza dell’insegnante, forse Leopardi stesso, l’opposto dell’uomo forte e vincente. Negli anni dell’adolescenza ero attratto dalla figura dell’eroe, ma ero altrettanto attratto da tutti coloro che riuscivano a descrivere (o che rappresentavano essi stessi con la loro vita) la fragilità dell’esistenza, la debolezza dell’essere umano.
La parola “cosmico” dà l’idea di qualcosa di immenso, non misurabile, senza fine, ed affiancata a “pessimismo” rimanda all’assenza di speranza ed anche al pensiero della morte.
Crescendo mi sono appassionato ai libri di Ernest Hemingway e posso affermare che il pessimismo dello scrittore americano non è certo inferiore a quello cosmico del nostro Giacomo Leopardi.
C’è un elemento, sia nei personaggi dei suoi romanzi che nello stesso Hemingway (non possiamo scindere la vita di un romanziere dai suoi libri) che mi colpisce più di ogni altro: la convivenza, apparentemente contraddittoria, nella stessa persona, di un carattere forte, intraprendente, senza paura, pronto all’avventura ed ai viaggi, alla guerra, che ottiene ciò che vuole, che si getta nella battaglia quotidiana con tutto sé stesso senza risparmiarsi, con una particolarissima sensibilità, che non gli permette di lenire il dolore di vivere se non con l’alcool.
Nei romanzi più importanti riesce a rappresentare perfettamente l’uomo che si relaziona alla morte, perché tutti prima o poi dobbiamo fare i conti con la morte e lui stesso li fece sin da giovane, ma in una disperazione nichilista i suoi alter ego realizzano che dopo non c’è nulla, che tutto finisce.
La sua visione della vita è totalmente immanente, non c’è alcuna trascendenza.
Lui (insieme ai suoi protagonisti) è l’archetipo dell’uomo moderno: godere dei piaceri che il mondo ci offre è tutto ciò che abbiamo, non c’è altro.
I suoi protagonisti sono sconfitti dalla vita, da un destino ineluttabile, dalla natura invincibile e spietata, contro cui non si può nulla: non c’è alcuna speranza, l’uomo è destinato a soccombere e ad essere infelice.
L’assenza di speranza è l’elemento caratteristico di tutti i suoi libri e quindi del suo pensiero.
E’ più leopardiano dello stesso Leopardi, senza saperlo (probabilmente).
Tra le righe dei suoi romanzi, e quindi nella sua testa, c’è una domanda che aleggia e di cui egli conosce la risposta, ma è troppo dolorosa e quindi preferisce tacerla, rimuoverla, anche se prima o poi verrà fuori da sola ed esploderà al termine della sua vita: la capacità di godere dei beni del mondo è sufficiente a dare la felicità?
Quando l’uomo perde quelle poche cose a cui è attaccato, quando perde la voglia o la possibilità di usufruire di quanto il mondo offre, allora la vita perde senso: è questa la sua implicita conclusione.
Nelle sue opere principali c’è un abbozzo di ricerca della verità, intesa come ricerca di Dio.
Tuttavia, in uno dei brani raccolti nel libro “I quarantanove racconti”, propone una forma blasfema del Padre Nostro, dove sostituisce la parola nulla a Dio, al cielo e così via: “O nulla che sei nel nulla, sia nulla il tuo nome, ecc. ecc”.
Ma si può vivere di nulla?
Morì suicida a 61 anni, dopo essersi accorto che a seguito di una malattia e di cure sbagliate non riusciva più a fare ciò che l’aveva reso uno dei più grandi scrittori moderni, ovvero scrivere.
La vita gli aveva dato e la vita gli aveva tolto: aveva senso continuare senza poter beneficiare di ciò che il mondo gli aveva donato sino a quel momento?
Fernanda Pivano, scrittrice sua amica nonché traduttrice in italiano dei suoi libri, disse amaramente che quel cervello che aveva rivoluzionato il modo di scrivere e che aveva ideato i romanzi più belli del ‘900, era spiaccicato sul soffitto della stanza in cui si era sparato, come a sottolineare quanto effimere siano le cose del mondo, simboleggiate da quel cervello, che prima era tutto e che ora non è più nulla.
Sic transit gloria mundi.
Andrea Antonini 

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