Un “volàno” nel cassetto. Il pilota umbro, Riccardo Rogari, si racconta (Parte 2)



UN “VOLÀNO” NEL CASSETTO

PARTE 2

“Sai, non sono mai sceso dalla macchina triste”, questa è una delle frasi pronunciate da Riccardo che più mi riecheggia in testa. E mentre lo dice gli occhi, dietro alle lenti colorate dei suoi occhiali, si illuminano di colpo. «A volte si ottengono risultati straordinari, eppure non sempre si arriva primi», mi spiega.
Già, non sempre si arriva primi: nelle gare come nella vita, ma quando fai qualcosa che ami, anche non
ottenendo il risultato sperato ti senti appagato, soprattutto ti senti vivo.

In quell’anno Riccardo conquista il titolo regionale riservato alle vetture del marchio del “Biscione”,
appunto il Trofeo Alfa Romeo 33, e sempre nello stesso periodo viene eletto dall’A.C.I. sport Umbria come miglior pilota, ma è nel 2013 che si laurea campione italiano Five Hundred Cup con una gara di anticipo,
stabilendo sul circuito di Misano Adriatico il record assoluto, tuttora imbattuto con quel tipo di vettura.
Nel 2014 prende parte al prestigioso campionato Bmw revival Cup alla guida di una Bmw 330 da 350 CV, conquistando una vittoria sul circuito umbro di Magione, siglando il record della pista, un terzo posto sul circuito di Imola e un ulteriore terzo classificato sul circuito di Adria.
Spinto dagli ottimi risultati e da un team che conta su di lui, si presenta al campionato italiano Blue France, riservato a tutte le vetture francesi, conquistando il secondo posto finale. Questa è solo una parentesi della sua vita da pilota.
«I sogni sono quel volàno che ti spinge la mattina a scendere dal letto e a dare il massimo». Ecco, per restare in tema credo che il volàno renda bene l’idea.

Allora chiedo a Riccardo di raccontarmi una giornata in pista, di immaginare di portarmi con lui. Cosa
accade. Cosa prova.
Mi descrive la sua prima gara ad Imola. È un weekend come tanti ormai, ma il circuito è nuovo e suo fratello che gli fa sempre da spalla stavolta non può accompagnarlo. Anche lui si sta preparando, tra poco gli toccherà il Campionato GT. Riccardo arriva presto in autodromo, è un’abitudine a cui non rinuncia. Ama godersi quell’esperienza a trecentosessanta gradi e poi ha bisogno di memorizzare alcuni punti di riferimento all’interno del circuito (come un tratto d’asfalto diverso dal resto, ad esempio). Per un po’ sta al muretto ad osservare gli altri piloti, le auto che sfrecciano durante le prove o le qualifiche. In quegli attimi, come sempre, una sensazione di paura lo assale. Non è la paura di correre, ma quella di non essere all’altezza, di non riuscire a dimostrare.

Poi arriva il momento tanto atteso. Ci si prepara a scendere in pista. A tre minuti esatti dalla partenza, tutti schierati con le macchine da corsa, il suo sportello si chiude e i meccanici si allontanano. Resta solo con sé stesso. Quello è sempre il momento più difficile, mi spiega.
«Prima dei “tre minuti alla gara” di solito c’è mio fratello che mi dà una pacca sulla spalla, un amico che mi sollecita con “Forza Riccardo”, diverse persone intorno a me pronte a darmi coraggio, poi più nulla ed io resto solo in auto. Lì mi rendo conto che nessuno può più aiutarmi. Quello che succederà da ora in poi dipende solo da me. Ma poi scatta il verde, tutti quei pensieri spariscono di colpo e la mente inizia a viaggiare in pista. A 180 km/h il cervello deve ragionare in modo molto più veloce perché le curve arrivano prima, il punto di frenata arriva prima e la concentrazione è alle stelle. O ti immedesimi nella lepre o fungi
da predatore. Se ho una macchina davanti a me devo raggiungerla e al tempo stesso devo far sì che il pilota dietro di me non mi venga addosso. Insomma devo andare, ma senza farmi prendere».

Quel giorno si aggiudica la pole position e vince. Dopo che la bandiera a scacchi viene agitata ad indicare la fine della gara, è il momento del famoso giro d’onore. Le auto rallentano e si dirigono ai box. Riccardo no.
Lui come sempre è l’ultimo a raggiungerli. Lascia il pedale dal gas, apre lo sportello per far arieggiare e magari scemar via l’adrenalina e così, lentamente, si fa l’ultimo giro di pista riassaporando metro dopo metro, quasi a rallentatore, quell’emozione che lo ha accompagnato durante la corsa. Stavolta, però, è difficile tenere a bada la commozione. Una lacrima gli bagna la guancia. Sta vivendo un’esperienza unica, c’è anche suo padre entusiasta ad attenderlo ai box ed è magnifico. Ma Angelo meritava di essere lì.

«Sono un pilota atipico perché con il lavoro che faccio ho pochissimo tempo da dedicare alla preparazione di una gara. Ma ho la fortuna di avere Angelo. Tramite piccoli brainstorming mi racconta un po’ alcuni circuiti dove io, magari, non ho corso. I primi tempi mi scriveva interi fogli descrivendomi curva per curva, marcia per marcia, punto d’accelerazione e punto d’uscita ed io me li imparavo a memoria. Oggi siamo molto più fortunati, esistono simulatori che ti permettono di conoscere a fondo la pista e simulare una corsa».

Capisco dai suoi discorsi che deve avere un rapporto davvero speciale con il fratello e che, forse, il mondo dei motori, non ha fatto altro che intensificare quel legame. Quando l’altro riesce a comprendere appieno che significato ha per te fare ciò che fai; quando i brividi sulla pelle sono conseguenza di scelte simili e nel vivere tutto ciò si è àncora e “ancora” l’uno per l’altro, allora essere fratelli non è più solo un legame di sangue. Diventa altro: qualcosa che non si può descrivere a parole.

Istintivamente guardandomi intorno, in un salone arredato da specchi, mi sorge spontanea la domanda:
Se guardandoti riflesso rivedessi il “te stesso” di qualche anno fa, prima di diventare pilota, cosa diresti?
Che consigli avresti per lui?
«Gli direi di fare tutto quello che realmente ho fatto, di non precludersi occasioni, di divertirsi al massimo e di mettersi in testa che è una persona fortunata perché può vivere certe emozioni, giocarci e perché no, persino regalarle al pubblico, a chi segue da casa. Gli direi: goditi ogni istante in pista e soffermati su ogni particolare perché quello che hai vissuto oggi non lo rivedrai, sicuramente alla prossima gara ci saranno nuove sensazioni, ma non ci saranno mai repliche. Enzo Ferrari, quando gli chiedevano cosa provasse nel costruire macchine da corsa, rispondeva che in verità non è facile dirlo perché le emozioni non si possono raccontare, ma vivere».
Mi confida che, forse, anche per lui non è semplice descrivermi le sensazioni di una corsa, l’adrenalina, la macchina che sfreccia in mezzo ad altre. Molto probabilmente però sono una delle poche persone con cui ne parla, mi svela.
«Penso che alle persone possa non interessare il mio mondo o, addirittura, risultare poco credibile. Ma i premi non li butto. Ho vinto tante gare e i trofei collezionati sono tutti lì, a casa mia, esposti come bellissimi ricordi. Ed è un po’ che non corro».

Riccardo parlandomi del suo mondo è un fiume in piena. La sua voce limpida e decisa, quel bagliore negli
occhi e parte del suo trascorso, raccontatomi tutto d’un fiato, mi trasmettono la piacevole sensazione di
avere di fronte un ragazzo che non trascorre le giornate ad aspettare che la vita semplicemente accada. Ma la stimola, la punzecchia mettendosi continuamente alla prova quasi cercando di plasmarla, di modellarla proprio come ha fatto stamattina con le ciocche dei miei capelli. E allora, mentre volge al termine la nostra piacevole chiacchierata, mi sfugge un’altra domanda, stavolta l’ultima:
Ai giovani, che hanno un “volàno” nel cassetto, cosa diresti? Che consigli avresti per loro?
«Mi dispiace perché vedo sempre più spesso ragazzi con poca fiducia in sé stessi e con pochi sogni. Ma i sogni sono davvero come un volàno. Quello che hanno insegnato a me è che si realizzano stando ad occhi aperti».

Mi racconta che per lui non si dovrebbe vivere di sogni inaccessibili, c’è bisogno di aspirare a desideri tangibili. «Vuoi andare sulla luna in un giorno? Sai che non è possibile. Ci vuole impegno, studio, sacrifici, dedizione. Ma il traguardo deve comunque essere la luna, quello che sta a significare la luna per te. Ai giovani non mi sento di dare chissà quale consiglio, non mi ritengo la persona più indicata perché anche io ho fatto stupidaggini, non sono di certo un santo, ma una cosa la dico… Avete voglia di sfogarvi in macchina? Non fatelo in strada. Esistono gli autodromi dove imparare e divertirsi in sicurezza. Consiglio spesso corsi di guida sicura. Personalmente tanto di quello che ho appreso in pista mi è stato di grande aiuto anche nella vita di tutti i giorni».

Ringrazio Riccardo per questa piacevole chiacchierata, mi alzo dalla poltroncina del suo accogliente salone e scatto alcune foto.
Gli auguro di tornare presto a ripetersi: “Chi caxxo me lo ha fatto fare?”. Magari per l’occasione ci saremo anche noi, al posto di quei due ragazzini e fratelli che esultavano dalle tribune, pronti a fare il tifo per lui.