Il Fiore della Vita

In copertina: tramonto cilentano

CAPITOLO II

13 FEBBRAIO

Cammino, lungo il sentiero che costeggia i Templi di Paestum, la città antica, un incanto per gli occhi, nettare puro per gli archeologi.
Dalla posizione in cui sono riesco a scorgere le rovine all’interno, i grandi Templi di Nettuno, di Hera, l’anfiteatro e gli innumerevoli reperti meravigliosamente conservati, considerata l’epoca. Cammino e sento il mare vicino, lì, oltre quella pineta non troppo lontana da me. I passi, uno dopo l’altro, si adagiano su morbida erba e piccoli sassi che accompagnano pietre, macigni di pietra sulla destra risiedono ormai immutabili da oltre ventisei secoli, difendono le mura della città come opliti giganti.


Immerso nella storia, provo a immaginare gli innumerevoli uomini che hanno percorso nei millenni quel mio stesso cammino.

Ecco, l’attenzione viene rapita da un airone bianco, lento, sorvola sopra di me. Un uccello meraviglioso, stranamente solo. Ho sempre pensato, forse non erroneamente, che tali pennuti si muovessero in stormi o quantomeno in piccoli gruppi. Quel volo solitario dell’airone suscita in me un senso combinato di ammirazione e malinconia. Ricordo un libro letto durante il periodo delle scuole medie, regalatomi da un caro amico di famiglia, Luigi, la storia del ben più celebre gabbiano, Jonathan Livingston. Che sia questo airone un po’ come lui, coraggioso e “fuori dal coro”?
Lo vedo allontanarsi nell’entroterra, probabilmente starà raggiungendo i suoi compagni di viaggio che lo aspettano sulle rive del fiume Sele, non distante da lì.
Forse le mie brevi e fantasiose congetture riguardo quel volatile, non sono altro che la proiezione del mio stato d’animo, della fantasia su di lui che, semplicemente, segue l’istinto. Divenuto ormai un minuscolo puntino bianco nel cielo, decido di accompagnare il suo viaggio con lo sguardo. Lo vedo ancora, quando ecco sopraggiungere un rumore d’auto da corsa. Sono fermo, non mi muovo, comprendo di essere in un altro flashback.
Un autodromo ed in pista una quindicina di kart che gareggiano, in via del tutto amatoriale. Vicino a me una tribuna di metallo grigio, montata probabilmente per gare ufficiali.
Scorgo, sopra di essa, la figura di Don Carlo e di un altro uomo, più alto di lui, più alto anche di me che basso non sono, dalla postura perfettamente eretta, di stampo militare. L’uomo porta un pizzo curato, vestito classico ed un cappotto nero lungo. Discute amabilmente con Don Carlo, non discostando mai lo sguardo dalla pista.
C’è un pilota, dalla statura piccola, la tuta bianco-verde acido dalle livree fluorescenti ed il casco nero.

Corre, corre più velocemente degli altri con il suo kart bianco, li supera tutti, entrando in curva senza mai decelerare. Sei, sette giri ancora e i responsabili di pista segnalano al pilota che deve rientrare. Lui alza la mano, come la procedura di gara prevede, e rientra ai box. Nel frattempo si sono avvicinati anche Don Carlo, il signore alto dall’abito scuro ed altri addetti del kartodromo, tutti intorno al piccolo pilota. Deve essere un ragazzino, considerata la statura non molto alta. Scende dal kart, toglie il casco ed ecco, lo riconosco: è Valentino!
Ha qualche anno in più, i capelli scompigliati e tutti, ma proprio tutti, si complimentano per come abbia corso. Alcuni hanno addirittura effettuato delle riprese, gente che vive di motori, uomini miscela dipendenti.

«Papà tieni il casco, mi formicola tutto», dice Valentino rivolgendosi all’alto uomo.

«Umberto, dallo pure a me», soggiunge Don Carlo. Umberto è il padre di Valentino, ha già un ombrello appoggiato al braccio e Don Carlo, che invece non porta nulla con sé, prende il casco dalle sue mani e, tutti e tre, si avviano verso l’auto, tra l’euforia generale del kartodromo e l’incontenibile gioia di Valentino che adesso cammina saltellando.
Il ragazzo ama la velocità, sembra nato per correre e non chiedere altro che quello. Entrano in auto, i grandi davanti, il piccolo dietro. Considerata l’autovettura, una SAAB 9000 turbo e l’abbigliamento, mi accorgo di trovarmi nei primi anni ’90.
Guardo i tre allontanarsi in auto. Io rimango lì, mi volto verso la pista e non ho più il circuito davanti a me, ma uno scenario completamente differente.
Sono seduto su un dondolo verde posto su un lungo terrazzo dalla singolare forma a ferro di cavallo, quasi sospeso tra il vuoto del salto ed il cielo.
Dinanzi un mare stupendo.
Alla mia sinistra scorgo una vecchia roccaforte sita sulla cima di una collina, sopra l’antico paese che sovrasta il porto. Esattamente di fronte il bagnasciuga, circa cento metri in linea d’aria. Sopraelevato di una cinquantina di metri, su questo piccolo colle riesco a scorgere l’intero lungomare del paese, e non solo.
Il paesaggio è inconfondibile, ho la Costiera Amalfitana sulla mia destra, in lontananza l’intera piana del Sele con le sue città e, all’estremità della linea di costa, lì, subito dopo Punta Campanella, chiara e nitida si staglia Capri.
Ormai è anche a me chiaro, sono sulla collina di San Marco, ad Agropoli, sul terrazzo di una splendida villa. Il profumo di ginestre selvatiche nel terreno sottostante, il sole ed una vista incredibile mi prendono a tal punto che quasi non mi accorgo di non essere solo. Mi sollevo dal dondolo ed entro in casa attraversando un balcone-finestra aperto che mi conduce al salone, grande, decorato interamente di ceramiche vietresi, luminosissimo.


C’è gran vita all’interno, circa una ventina di uomini e donne più o meno giovani, in ordine sparso. Vedo Don Carlo, l’intuito mi suggerisce che sia sua la villa. Intorno a lui, uomini più o meno coetanei lo ossequiano, ridono ad alta voce, sussurrano qualcosa, prendendolo sotto braccio. C’è una governante, molto indaffarata ed una donna, elegante nei modi, la segue e gentilmente le dà indicazioni. Mi pare di comprendere che, quella donna così raffinata e cordiale, sia la moglie di Don Carlo, la nonna di Valentino.
Esco dal salone e da quel brusio che, per un attimo, ho sentito in contrasto con ciò che di bello avevo vissuto sul terrazzo, per entrare in un altro grande ambiente dalla grande scala in ferro battuto, sinuosa e dallo stile mediterraneo conduceva al piano superiore. L’atrio e cinque porte, delle quali la più grande, aperta, conduce al cortile d’ingresso della casa. Il profumo di ginestre ancora impresso nelle narici, la villa è sita al centro di un giardino meravigliosamente verde, a due passi dal mare, una vista incantevole.
Sembra quasi voler essere lì quale portale di congiunzione tra la natura, l’uomo ed i sogni che la vita può realizzare. Sento la battuta di passi veloci dietro di me, mi volto e vedo Valentino con il padre scendere le scale in tenuta da mare ed entrare nella sala più grande della casa. «Io sono pronto, andiamo?».
In un attimo il ragazzino catalizza l’attenzione dei presenti su di sé, evidentemente tutti aspettavano il loro arrivo.
«Allora, ci vediamo qui stasera per cena?», esclama uno dei presenti parlando verso Don Carlo, un uomo sulla cinquantina che, poco prima, avevo notato avere già comportamenti eccessivamente melliflui nei confronti dell’industriale.
«Certo, ci vediamo tutti qui per le nove, Ginevra ha già preparato un ottimo baccalà alla portoghese! Potremmo fare degli spaghetti con le vongole ed un po’ di frittura di pesce! Ho promesso a mio nipote che saremmo andati tutti insieme in barca oggi, siamo pronti!», esclama Don Carlo.
Si rompono le righe e, in poco tempo, vedo tutti fuori dalla villa. Seguo con lo sguardo Valentino, così in un attimo mi ritrovo anch’io in mare, su di una barca, una cristalliera galleggiante. Un cabinato classico, dallo scafo alto, interamente rivestito in mogano marino. Sono a poppa, vicino un gommone arancione fissato alla barca.
Vedo Don Carlo al timone, di fianco a lui Umberto, parlano tra loro mentre Ginevra e la madre di Valentino conversano, animatamente, giù nel cabinato. Il giovane è un’esplosione di vivaci colori umorali e non riesce a star fermo un istante. Gioca con altre due ragazze che prendono il sole a prua, in un livello sovrastante il mio. C’è proprio tutta la famiglia al completo, come aveva detto Don Carlo poc’anzi a quell’uomo, nel salone della villa. Conosco bene la costa che stiamo navigando, selvaggia e senza tempo. Decidono di fermarsi in un luogo molto conosciuto dai locali e non solo, Punta Licosa, estremità meridionale del golfo di Salerno, luogo in cui un tempo sorgeva l’antica città greca Leucosia, oggi sommersa proprio lì sotto il nostro scafo.
Il tempo sembra scorrere veloce, purtroppo. C’è grande armonia in barca, una famiglia unita, volti distesi e sorridenti, un ragazzino amato da tutti che, insieme al padre, passa più tempo in acqua che a bordo. È tutto così perfetto, vorrei che anche per me, quei momenti, quella visione, non finissero.
Invece si fa ritorno in porto.
La luce del sole mi aiuta a comprendere l’orario, saranno le cinque, forse le sei del pomeriggio. Saliti tutti sulle auto, si dirigono nuovamente verso casa. Li seguo.
Lo spazio ed il tempo, in questa visione, sembrano divenuti un video da giostrare nelle mie mani, soltanto per quel po’ che mi è concesso vedere o, forse, rivedere.
Siamo nuovamente alla villa. Un urlo di aiuto, forte, un senso di panico pervade anche me.
«I ladri!», urla Ginevra.
Valentino è spaventato, le ragazze sono vicine al ragazzo, più spaventate di lui insieme alla madre. Rimangono fuori, nel cortile d’ingresso.
Umberto estrae una pistola semiautomatica dalla tasca, la carica ed entra subito in casa, seguendo la voce di Ginevra, entrata per prima in villa, insieme a Don Carlo. Si sentono due spari. nessuno sa di chi siano e le ragazze piangono, un pianto stretto tra i denti, contenuto forse dalla presenza del piccolo Valentino che rimane fermo, ammutolito.
La sorprendente paura dei ladri lo ha paralizzato.

«Erano lontani, sono stato io a sparare per metterli in fuga», dice Umberto uscendo dal portone d’ingresso, seguito da Don Carlo e Ginevra. Tutti si abbracciano, stringono soprattutto Valentino, il quale non parla, ma cammina di fianco il padre, piano, stordito, come se qualcuno bruscamente lo avesse svegliato da un bel sogno.


«Cosa volevano? Perché hai sparato papà? Se avessero voluto qualcosa, non potevano chiederla?», il piccolo spezza così il silenzio con questa ingenua domanda.
Quesiti che non hanno avuto risposta poiché, voltatomi verso il cancello d’ingresso vedo nuovamente le antiche mura di Paestum. Sono tornato al mio presente.
Non c’è più traccia dell’airone bianco, tutto è come lo avevo lasciato. Continuo a camminare, anch’io un po’ stordito, come Valentino. Avrei voluto rispondere alle domande di Valentino, confortandolo nel tentativo di aprirgli un nuovo sguardo sul mondo, più consapevole, meno fiabesco . La sua esistenza, per quanto apparso, era stata piena d’amore, di gioco, di desideri soddisfatti, di piccole sfide vinte, di protezione smisurata, di ricchezza e grande bellezza intorno a lui.
Valentino non è un bambino comune, tantomeno un fanciullo fortunato, lui era un privilegiato. La ricchezza, l’amore e tutto quel senso di protezione che percepiva intorno, facevano parte della sua quotidianità, era sempre stato così e non percepiva il male, l’invidia, la gelosia, l’ossessione del denaro che inquina l’animo. La sua vita era così, naturalmente completa e serena in ogni ambito.
Avrei voluto dire a Valentino che, all’infuori del suo mondo, ce n’è un altro immensamente più grande, fatto di uomini disposti a rinnegare anche se stessi pur di avere una piccolissima parte di quel che lui possedeva dalla nascita.

Avrei voluto parlargli del valore della prudenza, di non essere sempre così socievole con tutti, magari anche di sorridere meno, poiché quel mondo che lui non conosce, avrebbe invidiato anche il suo sorriso e sarebbe stato pronto a portarglielo via, in ogni modo possibile.

Avrei voluto dirgli di imparare ad essere duro con le persone, poiché quel mondo, un giorno, non avrebbe avuto pietà di lui e come un ladro, sarebbe entrato nella sua vita nel tentativo di portargli via quel che a lui era più caro.
Ma in fondo, perché riempire il cuore e la mente di un ragazzino di tali preoccupazioni? Se non lo ha ancora fatto la vita, perché dovrei provvedervi io?
Forse è più giusto che viva la sua età e nient’altro. Mi piace pensare che, quel ragazzo, scoprirà gradualmente e senza traumi le dinamiche dell’esistenza, magari riuscendo proprio con la sua gioia di vivere, a conquistare il mondo con il suo mondo.

Alfredo Francesco Caiazzo